Un Destino per amico
di Gianluca Verscae
Recensione del nuovo libro di Enrico Popolo "Io, il destino"
Ad un certo punto della vita, si affaccia un mondo intero nella mente di un uomo.
È un momento magico, trascendentale e inopponibile che accade a ognuno di noi e cui nessuno può sfuggire.
È un accavallarsi continuo e incessante tra meditazione e memoria, coscienza di sé e del mondo. Rimorsi, sensi di colpa per ciò che sarebbe potuto essere e non è stato (ancora) e, infine, desiderio di redenzione e di salvezza.
Io credo che niente più della narrativa, con tutte le sue feconde “impurità” e vocazioni alla feconda contaminazione, ma anche con la sua “gratuità” che la rende umanamente intera, può venirci in soccorso per aprirci la mente e offrirci insperate risposte.
Questo e molto altro è il filo conduttore di “Io, il Destino” (Leone Editore), la nuova fatica di Enrico Popolo.
Fatica, sì. Nel vero senso del termine.
Perché, tra le righe della storia e perfino nell'interpunzione e negli spazi vuoti, a me pare di scorgere i luccichii di piccole stille di sudore sfuggite dal corpo e forse dal respiro dell'anima dell'autore: lo stesso sudore, prima freddo di malattia mortale e poi di un calore simile all’insperata rinascita, che corre sulla schiena del protagonista di questo romanzo, Michele, quando s’inerpica sui 102 gradini dell'Eremo di San Colombano Abate, il monastero di Trambileno.
Un calvario più volte ripetuto, percorso con sofferenza per incontrare l'ineffabile figura di Frate Bartolomeo, un misterioso eremita. Il suo Golgota, la sua resurrezione.
Il romanzo di Popolo è una sfida e, al contempo, una provocazione. E non dev’essere stato facile né agevole, per l'autore, uscito letteralmente prosciugato di energie da questo suo intenso impegno di scrittura creativa.
Una sfida, perché il nucleo ideale che Enrico propone, calpesta i nostri indugi di consumatori pallidi di rassicurazioni a ore, diventando risorsa cui attingere per la vita ancora da vivere, ma soprattutto insegnandoci “come” viverla, intervenendo senza neppure la concessione di generiche attenuanti, nel bilancio da fare per sapersi giudicare correttamente. Irrinunciabile esame di coscienza stringente, sincero e onesto, per rinascersi e ricominciarsi.
Suddiviso in atti e scene, e non in capitoli, al pari di una commedia teatrale, il libro si presenta come un copione di vita da scrivere “insieme” a chi ci trascende, il Destino, e dà sapore a un’esistenza altrimenti ingiustificabile, nelle sue dismisure, tanto nella gioia che nel dolore.
Meglio ancora, come spiega con un sottile compiacimento lo stesso “convitato di pietra”, vero e fantasioso scrittore ombra: “Io, il destino, quindi, ho riscritto il copione che quell'attore è chiamato a recitare”.
Una provocazione, perché è evidente il disegno di Popolo, esperto di scienza della comunicazione, di tenere dentro il quadrato logico della lucentezza, tanto la forza e gli urti della coscienza, quanto i rimedi per guarire dalla superbia e dall’effimera superficialità edonistica con cui troppi di noi buttano via il proprio tempo.
Se pensassimo a tutte le fortune che abbiamo avuto senza meritarle, io credo che non oseremmo lamentarci: invece Michele - “una persona normale, come tante ce ne sono al mondo” - si lamenta, eccome. A voce alta.
Una vita da giovane broker di successo, il loft che più che un’abitazione, è un luogo che testimonia il via vai di una raffinata fantasia di corpi femminili, Michele subisce all'improvviso uno stop esistenziale sconcertante.
Si ammala di tumore al cervello.
La sentenza è oltraggiosa, crudele. Impietosa.
E qui Popolo fa fare una cosa che un mio maestro di giornalismo mi consigliava di fare: “Gianluca, indugia attorno alla domanda”.
Cioè, Michele, dopo l'inevitabile “ma perché a me?”, non parte in automatico con la risposta, che potremmo persino immaginare con tutta la sua carica virale di rabbia e di ribellione al “destino cinico e baro”.
No, Michele “forza” la propria naturale, sbrigativa predisposizione decisionista e utilitarista, condita da un sottofondo di “sano” egoismo maschilista, e sosta vicino a quel quesito-chiave: perché?
È in ragione di questa disponibilità piena e incondizionata ad accettare una risposta che lo rimette in gioco, costringendolo a ripensarsi e a partire da un'idea di sé diversa da quella abitudinaria, che inizia il nuovo viaggio. Periglioso, incerto e persino stravagante, che inizia subito dopo aver staccato allo sportello della malattia un ticket verso la salute del corpo e, maggiormente, di quella dell'anima.
Ed è solo a quel punto, alle prese con una cura costosissima e dagli esiti tutt'altro che scontati, che Michele: non allontana da sé “l'amaro calice”; entra nel suo “labirinto” assieme a Roberta, il suo grande amore fiorito proprio sotto i bombardamenti incessanti del male; accetta finalmente il suo “nuovo” Destino, che gli assegna un compito completamente diverso da quello di accumulare denaro con le speculazioni finanziarie in borsa e inanellare conquiste femminili da letto.
Non buttiamoci via - è come se ci consigliasse Popolo - finché c'è un po' di tempo, siamo in tempo per farlo.
Così, il progetto comunicativo-formativo allo stato nascente, “The Mind Tripping”, ovvero “la mente che inciampa”, è lo strumento che utilizzerà il redivivo Michele per portare la verità spirituale, propria di Dio, nella realtà delle persone. Che sono “anima e corpo”, dunque non solo materia.
La guarigione arriva solo “dopo” questo processo e, peraltro, potrebbe non essere definitiva.
Ma da lì in avanti, il protagonista e le creature che gli stanno accanto e lo accompagnano in questo cammino, saranno persuasi che nulla è per sempre, se non l'amore per gli altri e per il dono prezioso della vita, e che l'esito finale del viaggio dipende da noi e non da fattori esterni, insomma da una plumbea predestinazione che toglie fiato alla libertà del nostro arbitrio.
E' pertanto su queste basi che nasce una nuova alleanza, potrei azzardare quasi una “amicizia” con il “Destino” - regista del suo copione, scrittore a volte capriccioso, a volte un po' voyeur e indifferente al nostro smarrimento, altre volte invece collaborativo, fantasioso e aperto, direi quasi curioso degli esseri umani - naturalmente se Egli comprende l'onestà, la buona volontà e la “forza di spirito” di chi si accinge a ri-scrivere una parte del proprio “libro” della vita.
Non un libro semplice, sotto una patina che ricorda da lontano “Anonimo Veneziano” del grande Beppe Berto, ma con tutt'altro epilogo.
Non un testo comodo, visto che le sue righe interagiscono con chi legge, inducendo a un riepilogo senza scorciatoie della propria esistenza.
Non un romanzo leggero, gravato a volte da una coltre di complesse, articolate riflessioni teologiche e filosofiche, già espresse peraltro da Enrico Popolo nel suo corposo saggio “Tiy: la verità è dentro di te” (l'Evoluzione spirituale delle Scienze della Comunicazione – Leone Editore). E infatti il romanzo è una matrioska letteraria, il caratteristico insieme di bambole nelle bambole, cioè un libro che ne contiene molti altri, in un gioco labirintico di specchi e rimandi che debbono tenere desta l'attenzione. Perché la salvezza non è mai senza sforzo.
Ma “Io, il Destino” è un libro vero, sincero e autentico, che affronta un tema attualissimo in questo nostro lacerante presente: quello del rapporto tra l'uomo e la malattia. Del singolo e di una intera comunità planetaria. Autentico e sincero, certo, ma senza rinunciare mai al sorriso. Un’inaspettata teatralità, che intride l’opera di paradossi e di un sorprendente umorismo che non concede tregua, avvince e convince. Perché il nostro protagonista è uno di quelli che “toglietemi tutto, ma non le mie battute di spirito”: ed è lì che scopriamo come, in realtà, ci sia molta meno “casuale frivolezza” e superficialità un po' guascona di quanto immaginiamo, nell’incontenibile e vulcanica verve comica di Michele. Egli, fedele alla propria natura paradossale, nonostante viva una situazione decisamente tragica, non si abbatte ma reagisce all'insegna di un cabarettismo quasi surreale: perché la voce che fugge quasi selvaggiamente al controllo dell’educazione, delle buone maniere e della inopportunità, proviene direttamente dalla sua anima. Ne è la proiezione più autentica e spontanea.
Tutto questo somiglia terribilmente a quanto mi disse un giorno il mio sconcertato professore di lettere, al Liceo Buonarroti di Monfalcone, prima inviperito e poi conquistato dal mio “tema”, decisamente sopra le righe: “Versace, ti vorrei bocciare. Ma alla fine ho capito. Quello che ti viene rimproverato, coltivalo. Perché sei tu”.
Leggendo il romanzo di Popolo, ho trovato conferma che è sempre la parola il vero farmaco dell'anima ed è ancora la parola la premessa dell'azione conseguente, volta a creare le condizioni della speranza, che per me dev’essere sempre un progetto concreto. E della salvezza.
“La malattia entra a torrenti, esce a gocce”, dice un antico proverbio russo: mi è venuto in mente, chiudendo il romanzo di Enrico Popolo.
Nelle orecchie, un verso di Pablo Neruda: “Nascere non basta. È per rinascere, che siamo nati”.
Gianluca Versace
Giornalista e scrittore